Esteriormente, Marta ed Emma non potrebbero essere più diverse. La prima è solo una
bambina, ha sette anni e vive con la madre in uno dei tanti palazzi anonimi che
costellano Milano. La seconda è una donna matura, affermata psicologa. Ma le loro
vite sono destinate a incrociarsi.
A seguito di un incidente nel quale perderà
la madre, Marta – chiusa in un silenzio impenetrabile – verrà affidata alle
cure della dottoressa Emma Donati. A unirle sarà la volontà di superare un
lutto negato, rimosso. Perché anche Emma cela un groviglio di
sensi di colpa mai ammessi, che risalgono agli anni della Seconda Guerra
Mondiale.
In un alternarsi di capitoli, in
cui passato e presente si intrecciano senza soluzione di continuità, Marta
nella corrente (Neri Pozza, pp. 271, 16,50 euro) – opera prima di Elena
Rausa, candidata al Premio Berto – regala una storia intensa, delicata e
toccante.
Elena Rausa © Neri Pozza
Con un sorriso di gentile, Elena
Rausa mi accoglie nella sua casa per raccontarmi com’è nato il suo primo
romanzo.
“Marta
nella corrente” nasce dall’incontro con una vicenda reale: nell’inverno del ’43,
alcuni ragazzi sono stati arrestati in Valle d’Aosta e, successivamente,
deportati. Nella primavera del 2008, mi trovo a seguire una studentessa
proveniente da quegli stessi luoghi. Ragionando sugli argomenti possibili per
una futura tesina di maturità, esploriamo l’ipotesi che quest’ultima possa
essere incentrata sulla resistenza nella bassa Valle d’Aosta. Mi appassiono
alle vicende di alcuni giovani partigiani ebrei che furono arrestati. Da un
interesse di tipo storico, nasce una scrittura completamente diversa. Ho deciso
di assecondare i pensieri che questa storia mi sollecitava, intrecciando
un’esperienza particolare, ma al tempo stesso collettiva – la deportazione –
con una vicenda decisamente più comune, la perdita di una persona amata.
Il
personaggio di Marta, fragile, ma al tempo stesso risoluto nel suo silenzio
dopo la morte della madre, è tratteggiato in maniera realistica, a differenza
di molti bambini presenti in narrativa. Com’è riuscita in questo intento?
Quanto ha influito il suo essere madre e insegnante?
Il
mio ruolo di insegnante non credo molto perché i miei studenti sono più grandi
di Marta. Di fatto, nel rapporto tra la protagonista adulta Emma e la bambina
c’è sicuramente qualcosa che può richiamare anche la relazione educativa. Direi
che Marta ha una fisionomia di bambina che ho potuto aggiornare attraverso la
mia esperienza più recente – ho tre figlie e almeno due di queste hanno avuto
l’età di Marta. Per questo, posso rispondere ad alcune persone che mi hanno
detto che Marta è molto matura: ci sono bambini che, a quell’età, hanno una
lucidità sia dal punto di vista del linguaggio che del pensiero astratto notevole.
L’altro elemento importante è che, in fondo, c’è anche una parte di me in
Marta. La mia vicenda non ha nulla a che fare con quella descritta nel testo:
non ho i suoi lutti alle spalle, però è una bambina della mia generazione, che
vive una vita solitaria in una città in cui è facile essere tutti un po’
satelliti, dove negli anni ’70 – soprattutto per quelle famiglie in cui i
genitori arrivavano da fuori – c’era una vita molto isolata. Non c’era il gioco
di cortile, non c’era la grande famiglia. Una parte del suo spirito di
osservazione, della sua capacità di stare da sola è qualcosa che conosco. La
scelta di un personaggio di quell’età ha che fare con la percezione che, di
fronte ad alcuni eventi drammatici, la vita conosce una rapida semplificazione.
L’inadeguatezza di tutte le sovrastrutture del pensiero mostrano la loro
fragilità di fronte a qualcosa che non si può catalogare sotto nessuna
categoria se non quella del non senso.
Non
è stato semplice individuare la voce adatta, una lingua che corrispondesse alla
semplicità di pensiero e di vocabolario di una bimba di sette anni. Ho scelto
di usare una focalizzazione interna in diversi capitoli – alcune scene sono
rappresentate attraverso lo sguardo di Marta. Una scelta che ha richiesto
estrema cura, per cui devo ringraziare l’attenzione del direttore editoriale
Giuseppe Russo, che ha notato questo elemento come importante per il romanzo. È
stato un lavoro di revisione complesso e gratificante: trovare la voce di Marta
è stato un percorso che ha richiesto impegno, regalandomi infine una discreta
soddisfazione.
Marta nella corrente, un titolo enigmatico. Come l’ha scelto e
cosa rappresenta?
La
prima scelta per questo romanzo era “Come pietre”. Il riferimento è alla poesia
posta in epigrafe. Il destinatario è Turoldo che, nel momento in cui viene
scritta la poesia, è morto. Quest’ultimo viene definito come una di quelle
pietre profumate che ti aiutano ad attraversare il torrente della vita. “Come
pietre” era un titolo che, personalmente, mi piaceva molto. Volendo però
focalizzare l’attenzione sulla figura di Marta, ho pensato che se la bambina si
trovava nella corrente in un momento in cui quest’ultima era particolarmente
vorticosa, descriverla in quella situazione rendeva implicita anche la necessità
del guado e la conseguente presenza di buone pietre.
Il
dramma personale di Marta si intreccia nel romanzo con una grande tragedia del
secolo scorso, l’Olocausto. Qual è il motivo che l’ha spinta a inserirlo nel
romanzo?
C’è
stata una grande ricerca bibliografica. Sono temi che mi sono cari da sempre e,
senza nessuna presunzione, credo che uno dei significati di fare memoria abbia
anche a che vedere con la nostra capacità di pensare a qualcosa che ha
riguardato altri esseri umani nel passato come a qualcosa che ci riguarda. Per
questo motivo, credo che la Shoah sia un nodo di senso e significato per il
nostro tempo particolarmente ricco di ispirazioni: da un lato, per la
riflessione di carattere etico sul senso del male compiuto e subito,
dall’altro, perché coloro che sono sopravvissuti ci raccontano, oltre a
quell’esperienza lontana, anche il loro essere testimoni. Molto spesso è una
testimonianza che si produce con grandissimo dolore, che non trova una sua
soluzione nell’atto stesso di testimoniare. Al contrario, manifesta un’ampia
gamma di sentimenti, come se il male colpisse due volte: una prima volta, nel
momento in cui chi subisce un trauma o chi assiste a qualcosa che è drammaticamente
privo di senso soffre; la seconda che si perpetra nel tempo. Chi sopravvive è
come colpito da una chiamata in correità, come se l’atto stesso del
sopravvivere fosse una forma di tradimento verso chi non ce l’ha fatta. Un
aspetto interessante e universale dal momento che questo tipo di meccanismo appartiene
a molti di noi che siamo sopravvissuti a qualcuno.
Il passato ha bisogno di
essere riconosciuto per andarsene. Il silenzio lo trasforma in un eterno
presente. Una
chiave per superare eventi drammatici.
Un
personaggio secondario racconta al marito di una delle protagoniste di aver
assistito ad un incontro sul corretto comportamento da adottare in caso
d’incendio e, in quell’occasione, il relatore avrebbe suggerito - laddove
possibile - di provare ad attraversare le fiamme per raggiungere quella parte
di terreno che è già stata bruciata. È una metafora: la capacità di guardare in
faccia il dolore e di integrarlo lo rende meno virulento, meno forte. C’è una
caratteristica voluta che hanno i diversi capitoli nell’uso dei tempi verbali:
per molto tempo la vicenda che si svolge nel 1943 viene narrata utilizzando il
tempo presente – può sembrare paradossale perché si tratta di ricordi lontani,
di flash back che rimandano al passato. Nel momento in cui la protagonista
adulta accetta di ripercorrerli, questi flash back diventano dei ricordi,
vengono utilizzati i tempi del passato, trasformando quest’ultimo in qualcosa
che si può lasciar andare. Credo che il senso sia questo: un invito al
coraggio.
Marta nella corrente è il suo primo romanzo. È stato difficile
trovare spazio nel mondo editoriale?
Quando
qualcosa che per me è stato importante e faticoso raggiunge una sua conclusione
mi capita di perdere il senso della fatica che è stata, come se, in qualche
modo, appartenesse al passato. Marta nella corrente è uscito nell’ottobre 2014,
ma la stesura di questo romanzo nasce nell’estate del 2010. Gli anni successivi
sono stati segnati da diversi avvenimenti: su tutti, l’incontro con un
consulente editoriale – una figura importante, che mi ha detto che quello che
avevo scritto aveva un valore. Mi è capitato di incontrare sul mio percorso
diverse persone che hanno, innanzitutto, accettato di leggere e, in seguito, mi
hanno dato risposte con serietà e rigore. Un secondo momento di lavoro è
scaturito dalla scoperta della nuova collana di narrativa italiana inaugurata
da Neri Pozza. Ho deciso di propormi a loro: le tematiche erano nelle loro
corde e hanno ritenuto che si potesse investire in questo libro. Ho anche la
profonda convinzione di avere avuto fortuna perché il contesto in cui mi sono
trovata a lavorare e le persone che ho conosciuto hanno permesso un continuo
scambio di idee e crescita professionale.
Vi sarà spazio per la scrittura nel futuro?
Lo
spero: la scrittura si colloca in un sistema complesso della mia vita. Sto
studiando, ma non è ancora arrivato quel momento preciso in cui metto da parte
gli argomenti che ho approfondito e lascio lavorare l’immaginazione. Con Marta
nella corrente è andata così. Spero arrivi quel momento, che ci sia la
concentrazione sufficiente. Perché, a dirti la verità, è la parte che affronto
con gioia estrema.
Intervista di Francesca Marson
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